EMPATIA DA SOPRAVVIVENZA

Quando l’empatia è (in realtà) un’allerta:

Riconoscere la “falsa empatia” nata per sopravvivere

Molte persone si definiscono “altamente empatiche”.

Spesso dicono frasi come:

– “Capisco subito cosa prova l’altro”

– “Sento l’energia quando cambia in una stanza”

– “Anticipo sempre i bisogni degli altri”

Ma…

E se questa non fosse vera empatia?

E se fosse, invece, una strategia di sopravvivenza?

Non stai sentendo l’altro: stai prevedendo un pericolo

Per alcune persone, la sensibilità verso l’umore altrui non nasce dall’apertura, ma dall’allerta.

Da un sistema nervoso che ha imparato ad osservare tutto per proteggersi.

Hai imparato a leggere segnali, tensioni, cambiamenti minuscoli nel tono di voce, nei gesti.

Hai imparato a “indovinare” gli stati emotivi degli altri perché dovevi farlo.

Magari perché:

• un genitore era imprevedibile e ti salvavi solo capendo in anticipo cosa avrebbe fatto,

• un adulto cambiava umore e tu dovevi adattarti per non scatenare una reazione,

• un contesto emotivamente instabile (scuola, relazioni, famiglia allargata) ti ha costrettə a diventare radar emotivo.

Questa non è empatia: è ipervigilanza relazionale.

Un’infanzia da “radar emotivo”

Bambini cresciuti in contesti caotici, con adulti poco presenti o imprevedibili, sviluppano spesso questo “superpotere”:

leggere i bisogni e anticipare i movimenti emotivi altrui con incredibile rapidità.

Non per dono.

Per sopravvivere.

E da adulti?

Quel radar resta acceso.

Ti ritrovi a:

• sentire il bisogno di “sistemare” l’umore degli altri,

• non rilassarti mai davvero in compagnia,

• entrare in relazioni dove ti prendi cura e non ti senti mai abbastanza.

Quella che sembra empatia è, in realtà, una forma di iperadattamento.

Cosa c’entra l’epigenetica?

Oggi sappiamo che anche esperienze traumatiche nei nostri genitori o nonni possono influenzare il modo in cui reagiamo allo stress e alle relazioni.

Questo campo si chiama epigenetica.

In pratica: il nostro corpo può portare le “memorie” di ambienti pericolosi, anche se non li abbiamo vissuti direttamente.

Risultato?

Un sistema nervoso in allerta per default, che legge ogni sguardo o silenzio come una possibile minaccia.

 Come ci si sente?

Chi vive questa forma di “empatia di sopravvivenza” spesso:

• non si sente mai veramente al sicuro con nessuno,

• fatica a distinguere i propri bisogni da quelli altrui,

• si colpevolizza se non riesce ad “aiutare” o “sistemare” gli altri,

• ha paura di rilassarsi: “e se succede qualcosa mentre abbasso la guardia?”

Esempi concreti

  • M. si accorge sempre se qualcuno nella stanza è turbato. Cambia tono, alleggerisce l’atmosfera, cerca di “sistemare tutto”. Poi torna a casa stanca, ma senza sapere perché.
  • L. sa quando la partner sta per chiudersi in silenzio. Anticipa, fa domande, offre soluzioni, anche se non ne ha voglia.
  • S. si sente “responsabile” dell’umore di chi ama. Anche al lavoro: si prende carico del disagio altrui, fino a scoppiare.

Ma quindi cos’è questa “non-empatia”?

Potremmo chiamarla Empatia da Sopravvivenza.

Un adattamento raffinato, potente, sviluppato per evitare il dolore.

Non è “sbagliata”.

Ma non è nemmeno libertà.

Perché non nasce dalla connessione, ma dalla paura.

Come riconoscerla?

Ecco alcuni segnali che la tua empatia potrebbe essere in realtà “Empatia da Sopravvivenza”:

• Ti senti in colpa se non ti occupi degli altri.

• “Leggi l’atmosfera” e ti adatti, anche senza volerlo.

• Ti è difficile dire “non lo so” o “non posso aiutare”.

• Ti senti svuotatə dopo interazioni intense.

• Non riesci a rilassarti se qualcuno vicino a te è turbato.

• Hai difficoltà a riconoscere i tuoi veri bisogni.

La buona notizia

Se ti ritrovi in tutto questo, non sei rottə.

Hai costruito una strategia brillante per sopravvivere.

Ma ora non ti serve più.

Ora puoi iniziare a rilassarti.

Nessuno ti farà più del male.

E ora?

Ci sono metodologie specifiche per lavorare su questo tipo di esperienza.

Percorsi che aiutano a:

• distinguere tra empatia autentica e ipervigilanza,

• ricontattare i propri bisogni,

• mettere confini senza sentirsi in colpa.

Un percorso di counseling può essere il primo passo ideale.

Non si tratta di “curarti” ma di capire cosa ti porti dietro, quanto pesa, e se è ancora utile.

Nel mio lavoro ti aiuto proprio in questo:

  • distinguere il trauma dalle scelte
  • e se serve, ti aiuto a trovare professionisti specializzati in traumi più complessi.

Se vuoi iniziare questo percorso con me, scrivimi! 

Ti meriti di stare bene anche quando non stai sistemando nessuno. 

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