Ci hanno insegnato a chiamarci “people pleaser”. A identificarci con una parola che sembra quasi gentile, perfino nobile: persone che vogliono solo fare stare bene gli altri. Ma la verità è un’altra. I people pleaser non esistono.
Non esistono persone nate per compiacere. Esistono persone che hanno imparato, in ambienti dove non c’era spazio per il conflitto, per la rabbia, o semplicemente per il loro “no”, a usare il compiacere come strategia per sopravvivere.
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Non è altruismo. È paura.
Quando dici sempre sì. Quando non dici cosa pensi davvero. Quando ti adatti. Quando scendi a compromessi che ti fanno male. Quando ti accorgi che ti stai trasformando in ciò che gli altri vogliono. Non lo fai per bontà. Lo fai per evitare il conflitto, il giudizio, il distacco, il silenzio, lo sguardo arrabbiato, la tensione nella stanza. E sì, anche per evitare il rifiuto. Ma non è solo quello. È tutto ciò che nel tuo corpo è stato codificato come pericoloso, doloroso o insopportabile.
Paura che nasce in tempi in cui non potevi permetterti di dire la tua, perché eri troppo piccolo, troppo dipendente, troppo vulnerabile. Non è una scelta consapevole. È un sistema automatico che si attiva appena percepisci una tensione. E fa quello che sa fare meglio: spegnere il tuo bisogno per mantenere la connessione.
Compensare l’insicurezza con l’adattamento
Il vocabolario definisce “compiacere” come “fare o dire qualcosa per rendere contento qualcuno, per assecondarlo”. In apparenza, è quello che facciamo. Ma se guardi bene, manca una cosa fondamentale: il fine ultimo non è rendere contento l’altro. Il fine è mettersi in salvo.
Chi compiace in automatico non sta cercando davvero di generare piacere o benessere in chi ha davanti. Sta cercando di evitare un danno: un’esplosione, un conflitto, un abbandono, uno sguardo che fa paura. È una scelta, sì, ma condizionata dalla paura. Non è un’offerta libera. È una risposta appresa.
Non è compiacere. È adattarsi per sopravvivere. È proteggersi.
È dire “va bene” quando dentro stai urlando. È sorridere quando il corpo è teso. È dire sì, ma solo perché dire no è pericoloso, o ti fa sentire in colpa.
È una scelta automatica, fatta da una parte di te che ha imparato a mettere in pausa il tuo bisogno per non perdere l’altro.
Chi ha imparato a compiacere, ha spesso una parte interna che ha fatto un patto molto chiaro: “Mi annullo io, così tu non te ne vai. Così non ti arrabbi. Così mi ami.” Ma questo patto ha un costo altissimo: ti fa dimenticare chi sei. Ti fa vivere in funzione di come ti vedono. E a lungo andare ti svuota. Ti fa sentire finto, invisibile, esasperato. E poi, magari, ti fa esplodere. Perché nessuno può ignorarsi per sempre.
Non è una parte sbagliata. È una parte che ha imparato a difenderti
Nel mio lavoro lo vedo ogni giorno: persone che si presentano dicendo “ho bisogno di smettere di essere un people pleaser”, “sono stancə di farmi in quattro per tutti”, “mi sento come una prostituta emotiva”, “sono sempre quella che si adatta”.
Ognunə ha le sue parole. Ma il nucleo è sempre lo stesso: sentono che non riescono più a essere sincerə, presenti, reali nelle relazioni. Sentono che stanno recitando. Che stanno pagando un prezzo altissimo per tenere in piedi l’immagine di una persona “facile”, “gentile”, “gestibile”.
E invece la prima cosa che facciamo è smettere di odiare quella parte. Perché non è una debolezza. È un’adattamento. È una risorsa che ti ha tenutə al sicuro.
Questa parte non va eliminata. Va capita. Va ringraziata. E poi va liberata dalla paura. Solo allora può trasformarsi. Solo allora puoi imparare a dire un no che non ti fa tremare. A occupare uno spazio senza sentirti in colpa. A scegliere anche quando qualcuno potrebbe non approvare.
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Il punto non è il sì. È il perché
Due persone possono dire sì. Ma una lo fa da uno spazio libero, l’altra per paura. Il problema non è che dici sì agli altri. È che dici no a te.
Ed è lì che si lavora: sul perché. Su cosa senti quando ti esprimi. Su cosa temi se dici di no. Sulle storie che ti porti dietro. Sui confini che non ti sono stati insegnati, o che ti è stato impedito di costruire. Perché crescere in un ambiente in cui l’amore era condizionato – “ti amo se fai quello che voglio io” – ti porta a credere che anche nella vita adulta valga la stessa regola.
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Non è colpa tua. Ma ora è responsabilità tua
Non ti sei inventatə nulla. Non sei debole. Hai solo fatto quello che serviva per sopravvivere. Ma se oggi quella strategia ti sta distruggendo, allora è il momento di rimetterla in discussione. Di guardarla negli occhi. Di capire che quella parte non sei tu: è solo una parte. E puoi imparare a guidarla, invece che lasciarti guidare.
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Questo è il cuore del mio lavoro
Nel progetto SOS Boundaries, il mio focus non è insegnarti a “essere più forte” o a “non farti fregare”. Il mio lavoro è aiutarti a vedere cosa c’è dietro quei sì. A riconoscere le parti di te che si sono adattate troppo. A ricostruire confini che non siano muri, ma spazi vivi, abitabili, dove puoi esistere interamente.
Non si tratta solo di comunicazione assertiva. Si tratta di identità. Di sicurezza interna. Di fare pace con il fatto che sei statə fragile, ma oggi puoi scegliere. E che non sei natə per compiacere, ma per vivere relazioni vere, dove il tuo bisogno non è una minaccia, ma un diritto.