Come trauma e perdita agiscono sui confini emotivi

I confini emotivi non sono muri o regole rigide: sono linee invisibili che ci aiutano a capire dove finiamo noi e dove iniziano gli altri. Ci permettono di regolare vicinanza, distanza e autenticità nelle relazioni.

Ma che cosa succede quando la nostra storia include un trauma o una perdita importante? Perché, dopo certe esperienze, diventa più difficile sentirci sicuri, dire “no” o aprirci senza paura?

Per rispondere, guardiamo il tema da quattro prospettive: la neuroscienza di Bessel van der Kolk, la teoria dell’attaccamento di John Bowlby, l’analisi culturale di Gabor Maté e le riflessioni comunicative di Paul Watzlawick.

1. Il corpo ricorda: il punto di vista di Bessel van der Kolk

Lo psichiatra Bessel van der Kolk ci mostra come il trauma non resti solo nella memoria cosciente: si imprime nel corpo e nel cervello.

Quando viviamo un evento travolgente — violenza, perdita, catastrofi emotive — il sistema nervoso registra la minaccia in modo profondo, oltre le parole.

Questo significa che, anche dopo anni, il corpo può reagire come se il pericolo fosse ancora presente. Non è questione di volontà: sono risposte automatiche, fisiologiche.

Ecco perché i confini emotivi diventano distorti:

• In iperattivazione (amigdala in allarme) ci chiudiamo dietro muri rigidi, pronti a difenderci da ogni contatto.

• In ipoattivazione o congelamento, i confini collassano: perdiamo il senso dei nostri bisogni, facciamo fatica a dire “no”, diventiamo troppo permeabili.

Van der Kolk nota un paradosso: molte persone traumatizzate si sentono “vive” solo quando rivivono il dolore originario. La familiarità con il pericolo rende la sicurezza estranea. Questo spiega perché, a volte, possiamo cercare inconsapevolmente situazioni che ripetono la ferita: solo lì il corpo percepisce intensità e presenza.

2. Attaccamento e confini: l’eredità di John Bowlby

John Bowlby, fondatore della teoria dell’attaccamento, sposta l’attenzione dal corpo alla relazione. L’attaccamento è il sistema con cui regolarizziamo vicinanza e distanza dalle persone significative.

Se, da bambini, viviamo cure prevedibili e accoglienti, sviluppiamo un modello interno stabile: possiamo avvicinarci e allontanarci senza perdere il senso di chi siamo. Su questo terreno crescono confini emotivi sani: “io sono io, tu sei tu”.

Quando invece le cure sono incoerenti, rifiutanti o spaventose, i modelli interni codificano il pericolo nella vicinanza o nell’assenza. Così i confini si organizzano in difesa:

Stile ansioso: paura della separazione, confini troppo aperti; si monitora l’altro, si compiace, si fatica a dire “no”.

Stile evitante: timore dell’intrusione, confini rigidi; si minimizzano i bisogni, si tengono le persone a distanza.

Stile disorganizzato: avvicinamento e paura convivono; i confini oscillano, ora crollano, ora diventano invalicabili.

Nell’età adulta, queste mappe relazionali continuano a operare sotto stress: decidono chi lasciamo entrare, quanto, e quando chiudiamo la porta — spesso prima che la scelta diventi consapevole.

3. Cultura e autenticità: lo sguardo di Gabor Maté

Lo psichiatra Gabor Maté aggiunge un tassello importante: la cultura.

Nel libro The Myth of Normal sostiene che la nostra società premia produttività, compiacenza e sacrificio, mentre scoraggia vulnerabilità ed espressione autentica. Impariamo presto che dire “no” o mostrare i nostri limiti può sembrare egoista o debole.

Molti interiorizzano questo messaggio: per essere accettati bisogna soffocare i bisogni, adattarsi, cancellare i confini. Quello che nasce come strategia di sopravvivenza diventa un “modo normale” di vivere, anche se ci allontana dal sé.

Maté mostra, inoltre, come il crollo dei confini non è solo un problema relazionale: aumenta lo stress biologico e può danneggiare la salute. Reprimere continuamente rabbia, dolore o fatica logora il sistema nervoso e abbassa la capacità di riparazione.

Anche irrigidirsi non è la soluzione: muri troppo spessi impediscono intimità e connessione. Ma l’assenza di limiti espone il corpo a richieste e pressioni continue, senza difesa né cura.

4. Costrutti difensivi: il contributo di Paul Watzlawick

Paul Watzlawick porta l’attenzione su un altro livello: quello comunicativo e cognitivo. Secondo lui, le persone vivono spesso dentro “costrutti” rigidi, cornici linguistiche che definiscono la realtà e limitano ciò che percepiamo, interpretiamo e facciamo.

Applicato ai confini emotivi, questo significa che le strategie difensive nate da un trauma possono trasformarsi in regole interiori:

• “Devo sempre adattarmi.”

• “Non posso fidarmi di nessuno.”

• “Devo essere forte a ogni costo.”

Queste frasi non sono semplici pensieri: sono schemi che organizzano l’esperienza e mantengono vivo l’adattamento o il ritiro anche quando il pericolo originario è finito.

Watzlawick mette in evidenza anche il lato paradossale: cercare di risolvere un problema dentro lo stesso costrutto che lo crea spesso lo rende più stabile. Chi vive secondo il motto “devo essere sempre forte”, per esempio, può spingersi a negare la propria vulnerabilità, rinforzando così la solitudine che voleva evitare.

In questo senso, trauma e perdita non distorcono i confini solo attraverso il corpo, le relazioni o la cultura, ma anche a livello cognitivo: i costrutti difensivi diventano piccole prigioni linguistiche, mantenute dagli stessi meccanismi che un tempo offrivano protezione.

Conclusione

Trauma e perdita possono piegare i confini emotivi in due direzioni opposte: rigidità che esclude o permeabilità che annulla. Il corpo, le relazioni, la cultura e persino i nostri costrutti mentali partecipano a questo processo.

Comprendere questi livelli aiuta a vedere i confini non come muri, ma come soglie dinamiche, da riconoscere e allenare con consapevolezza.

Se senti che i tuoi confini sono diventati troppo rigidi o troppo fragili, o se dopo un trauma o una perdita fai fatica a sentirti autentico, sappi che non devi farcela da solo. SOS Boundaries è il progetto che ho creato per accompagnare chi vuole ritrovare spazio, sicurezza e presenza nelle relazioni con sé e con gli altri.

Se hai bisogno di supporto su questo percorso, puoi contattarmi: il primo spazio di ascolto è gratuito. 

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