Non è mai abbastanza: perché viviamo con la sensazione di dover fare di più

Viviamo in un’epoca in cui tutto deve crescere: i profitti, le prestazioni, la motivazione, la produttività. Anche la felicità è diventata una metrica. Ci sentiamo sbagliati se rallentiamo, se non miglioriamo, se non “cresciamo” abbastanza in fretta. Ma la verità è che il cervello umano non funziona così. La mente non è una macchina, e la vita non è una linea retta.

L’illusione del “sempre di più”

Fin da piccoli impariamo che il valore dipende da quanto facciamo. A scuola, nel lavoro, nelle relazioni, perfino nella crescita personale: bisogna “fare di più”, “ottenere di più”, “diventare di più”.

Ma questa spinta continua crea una distorsione. Non importa quanto otteniamo: il piacere dura poco, e subito dopo arriva un nuovo obiettivo. È come correre su un tapis roulant che non si ferma mai.

In psicologia questo meccanismo si chiama adattamento edonico: ci abituiamo in fretta ai risultati, e il cervello alza di nuovo l’asticella. Così la soddisfazione diventa temporanea, e la mente vive in uno stato costante di tensione.

Quando la spinta si trasforma in blocco

La società premia la velocità, ma il sistema nervoso ha un limite. Quando restiamo troppo a lungo in modalità “spinta”, il corpo e la mente si ribellano.

Il blocco non è pigrizia. È un segnale fisiologico di saturazione.

Quando il cervello non ha più margine per elaborare, smette di rispondere. Ci sentiamo confusi, demotivati, senza direzione. È il modo in cui il sistema nervoso dice “basta”.

È lo stesso principio per cui, dopo troppo stress, si sviluppano sintomi come insonnia, ansia, irritabilità o esaurimento emotivo.

La vita non è lineare

Nessun percorso psicologico o umano è lineare. Crescere significa anche cadere, fermarsi, cambiare idea, o restare fermi a guardare ciò che fa male.

Le fasi buie non sono un difetto del sistema: sono parte del sistema.

Il cervello apprende più nei momenti di discontinuità che in quelli di efficienza. Le pause e i fallimenti costringono la mente a riorganizzarsi, a costruire nuove connessioni, a sviluppare resilienza.

In terapia o in counseling, spesso il cambiamento più profondo nasce proprio dopo una fase di stallo o di crollo apparente.

Fermarsi non è fallire

Rallentare non è un segno di debolezza, ma un atto di autoregolazione.

Ogni organismo, per restare in equilibrio, alterna fasi di espansione e di recupero. Gli esseri umani non fanno eccezione.

Non dobbiamo “funzionare” sempre. Dobbiamo imparare a riconoscere quando il corpo e la mente chiedono spazio.

I periodi bui non sono una deviazione dal percorso: sono parte del percorso.

Ritrovare il senso

Il vero cambiamento non nasce dal forzare di più, ma dal capire perché lo stiamo facendo.

La domanda non è “quanto sto crescendo?”, ma “in quale direzione mi sto muovendo, e a quale prezzo?”.

Non serve distruggere il sistema esterno, ma smettere di replicarlo dentro di noi.

Siamo esseri umani, non grafici di performance.

E a volte il passo più evoluto che possiamo fare è fermarci, respirare e riconoscere che anche la pausa è crescita.

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