Oltre il mito del “funzionare sempre”: salute ed empatia nella cultura moderna

Oltre il mito del “funzionare sempre”: salute ed empatia nella cultura moderna

“Much of what we call ‘normal’ in today’s culture is neither healthy nor natural.”

«Gran parte di ciò che chiamiamo “normale” nella cultura di oggi non è né sano né naturale.»

— Gabor Maté, The Myth of Normal

C’è qualcosa di paradossale nella nostra idea di normalità. Viviamo in un mondo che esalta il benessere e l’equilibrio, ma che allo stesso tempo ci spinge a funzionare sempre, a restare produttivi, a crescere figli “adatti” più che liberi di sentire.

È su questo che Gabor Maté, insieme al figlio Daniel, scrive The Myth of Normal: un invito a guardare come la cultura occidentale influisce su salute, emozioni e capacità di restare in contatto con noi stessi.

Quando crescere significa adattarsi

Ogni bambino nasce con due bisogni fondamentali: attaccamento (la certezza di appartenere) e autenticità (la possibilità di sentire e mostrare ciò che prova). In un mondo che corre, anche i genitori più attenti vivono pressioni — economiche, sociali, emotive — che li spingono a privilegiare il “funzionamento” dei figli più della loro interiorità.

Non è cattiveria: è un riflesso di un sistema che misura il valore con la produttività. Così, senza volerlo, adulti stressati trasmettono un messaggio implicito: “Ti vedo se stai tranquillo, se non disturbi, se fai quello che serve.”

Molti imparano presto a disattivare parti di sé pur di restare accettati. Quel “non fare troppo rumore” diventa perfezionismo, iper-responsabilità, incapacità di dire no.

L’erosione dell’empatia

Maté descrive un paradosso: la nostra cultura celebra l’empatia come valore, ma raramente la sostiene davvero. Genitori lasciati soli, orari impossibili, algoritmi che premiano l’attenzione costante: tutto erode la capacità di restare presenti ai bisogni di chi cresce.

Quando l’empatia manca, il bambino sviluppa confini “di sopravvivenza”: non sono limiti consapevoli, ma strategie per non sentire troppo dolore. Da adulti, questi confini diventano invisibili o rigidi: oscilliamo tra fonderci con gli altri o chiuderci del tutto.

Il corpo non dimentica

Il prezzo di questa adattabilità non è solo psicologico. Il corpo registra anni di “stare bene per forza”: tensioni croniche, ansia sottile, disturbi fisici, dipendenze. Non è debolezza personale: è il linguaggio di un sistema nervoso che ha imparato a sopravvivere mettendo da parte i bisogni.

Riconoscere questo non significa accusare i genitori o assolversi da ogni responsabilità. Significa vedere che le scelte individuali sono intrecciate con il contesto: un contesto che spesso premia chi non sente, chi regge, chi non pone limiti.

Riprendere spazio

Se il problema nasce in parte da un ambiente che svaluta l’empatia, la via d’uscita non può essere solo “impegnati di più”. Serve creare luoghi — interiori e relazionali — dove non sia necessario dimostrare nulla.

Può voler dire:

• coltivare una passione che non ha bisogno di performance;

• cercare relazioni che accolgano anche le parti “scomode”;

• allenarsi a dire “no” senza sentirsi cattivi.

Sono gesti semplici ma radicali: insegnano al corpo che esistere non è una colpa.

Conclusione

Il mito della normalità ci sfida a smettere di confondere l’adattamento con la salute. Una società che ignora il peso delle emozioni, che lascia soli i genitori e spinge i bambini a diventare “efficienti” prima di tutto, costruisce adulti capaci ma scollegati da sé.

Riscoprire confini ed empatia quindi non è solo crescita personale: è un atto culturale. Significa rifiutare l’idea che valiamo solo quando “funzioniamo” e dare valore alla parte più viva, sensibile e relazionale di noi.

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